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Dal libro game al fumetto, Intervista a Dave Morris

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di Efrem Orizzonte
apparso originariamente su DM Magazine n° 22



Se si eccettuano le poche notizie sull’autore fornite nelle edizioni inglesi dei tuoi libri, si sa veramente poco di Dave Morris. Vorresti metter giù una breve autobiografia?

Come molti inglesi, sono un po’ meticcio. I miei nonni materni, originari di Dublino, vivevano nel Buckinghamshire, dove molte mie zie e miei cugini risiedono tuttora. La famiglia di mio padre invece viene dal Derbyshire: mio nonno paterno era fabbro, quello materno lavorava nell’edilizia. Mio padre, da parte sua, era ingegnere. Dico tutto questo perché a volte capita che uno esamini il suo albero genealogico e si chieda quali qualità, preferenze e abilità gli vengano dai suoi avi.

Ho vissuto e sono cresciuto in periferia fino alla metà degli anni ’70. Se volete sapere com’è l’Inghilterra suburbana, guardate la scena in cui Harry aspetta il bus notturno in Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban. Ma in realtà questa è solo metà della storia. Ci sono anche campi e boschi in cui da bambino giocavo spesso e che sono stati terreno fertile per la mia attiva immaginazione.

Cominciai a giocare ai giochi di ruolo subito dopo aver finito la scuola. All’università di Oxford tenevo sessioni settimanali di giochi di ruolo e fu lì che conobbi Min (Mark Smith) e, in seguito, Oliver Johnson. Mi avete chiesto dettagli autobiografici, perciò aggiungo anche che ero di stanza al Magdalen College, alma mater di Oscar Wilde, T.E. Lawrence e Dudley Moore, per nominarne qualcuno. Passai due anni negli Edifici Nuovi (costruiti nel 1733, ma il nome gli è rimasto) e il terzo anno nelle stanze migliori del college, proprio sopra gli alloggi del custode. Pare che Oscar Wilde una volta chiamò, dalla finestra della mia stanza, alcuni amici che erano giù in High Street. Alcuni bulli di passaggio, irritati dagli abiti sgargianti e dalla parlata di Oscar, gli gridarono degli insulti... che lui gli restituì. Allora quelli corsero su fino alla sua (e, in seguito, mia) stanza, decisi a riempirlo di botte, ma Oscar era il campione di pugilato della scuola e rovesciò le sorti della battaglia...

Comunque, dopo l’università pubblicai un gioco di ruolo chiamato Mortal Combat tramite il mio vecchio amico Steve Foster e fui invitato da Ian Livingstone e Steve Jackson a creare per Games Workshop il design di un gioco di ruolo molto più ambizioso che si sarebbe chiamato Adventure. Il titolo era un'idea loro, non mia. Ebbene, il gioco fu completato, ma a quel punto Games Workshop deteneva ormai i diritti di RuneQuest per il Regno Unito, quindi non aveva nessuna fretta di lanciare un prodotto concorrente. Fortunatamente, la mia ingenuità giocò a mio favore: non ebbi mai un contratto o un anticipo da loro, perciò rimasi proprietario del gioco e potei usarlo in seguito come base del sistema di Dragon Warriors.

Giusto per far capire quanto fosse piccolo all’epoca il mondo dei giochi: Min mi fu presentato dal suo compagno di scuola Jamie Thomson che poco dopo ottenne un posto a Games Workshop e mi adescò a scrivere per la rivista White Dwarf. A un certo punto mi ritrovai a scrivere per loro così tanti articoli che dovetti ricorrere a vari pseudonimi: Liz Fletcher, per esempio.. Phil Holmes... Un altro redattore di White Dwarf era Ian Marsh che viveva nell'appartamento sopra quello di Paul Mason, il quale alcuni anni dopo scrisse diversi libri di Fighting Fantasy (in Italia Dimensione Avventura N.d.R.) e partecipò anche lui al mio gruppo dei giochi di ruolo. Anche Joe Dever e Gary Chalk, creatori dei librogame di Lupo Solitario, lavorarono per qualche tempo per Games Workshop.

I tuoi libri e il tuo stile dimostrano che sei una persona estremamente colta, nonché un assiduo lettore. Quali sono le tue letture e i tuoi interessi principali e quali sono stati di maggiore ispirazione per le tue opere?

Non sono cresciuto in un ambiente familiare molto letterato, non in termini di letteratura “alta”. Avevamo un sacco di libri – io avevo sempre il naso dentro un libro – ma erano libri di testo e romanzi di Ian Fleming, non i Brontë e Tolstoy! All’inizio era il racconto a catturarmi, non la qualità della prosa. Il primo libro che ricordo di aver preso dalla biblioteca era un volume di mitologia nordica grande quasi quanto me. Mi immersi nell’oscurità, nel ghiaccio, nel mistero ed è ancora tutto lì, alle radici del mio pensiero: Loki col serpente che gli sputa veleno negli occhi, Odino che si cava un occhio e si impicca all’Albero del Mondo per ottenere la conoscenza... Roba davvero formativa per uno di sette anni!

Altre influenze precoci furono i fumetti Marvel, H.G. Wells, Bram Stoker, Daleks, il Planetario di Londra, la rivista Famous Monsters of Filmland, il fumetto The Trigan Empire, i paesaggi del Surrey... Mio padre, ingegnere, mi insegnò a identificare gli schemi che sottendono la realtà del mondo, quindi praticamente qualsiasi cosa diventava cibo per la mia immaginazione e direi che per la maggior parte del tempo mi trovo nella realtà al cinquanta per cento.

Quando i miei gusti letterari si svilupparono un pochino, divenni un avido lettore dagli interessi piuttosto ristretti, almeno per quanto riguarda la fiction. Era tutta roba di genere: i miei scrittori preferiti erano Mike Moorcock (i suoi omaggi a John Carter di Marte di Burroughs), Robert E. Howard, H.P. Lovecraft ed Ellery Queen. È strano come cambino i gusti: considero ancora Howard uno dei massimi narratori, ma dubito che oggi riuscirei a leggere un'intera pagina della prosa di Lovecraft. Nello stesso periodo (ero ancora pre-adolescente) mi interessai alla filosofia in quella maniera "mordi e fuggi" in cui leggono i bambini; trovai aree di interesse soprattutto in Platone e Cartesio. Mi ha divertito vedere che la mia pagina di Wikipedia descrive il mio stile come "poetico", perché a dodici anni ero ardentemente d'accordo con Platone nel pensare che "i poeti sono nemici della verità".

Negli anni dell’adolescenza devo anche aver letto un mucchio di pure s*******e, però scoprii Jack Vance (che è ancora uno dei miei scrittori preferiti e ha avuto su di me una grande influenza) e cominciai a sviluppare i rudimenti della raffinatezza letteraria. Per lo meno cominciai a capire perché tutti incensassero tanto Shakespeare. Cominciai anche a scoprire le ragazze – un po’ in ritardo, visto che frequentavo una scuola maschile – e appresi che loro tendevano a leggere libri veri ed erano spesso piuttosto sprezzanti nei confronti della fantascienza. Quindi provai Nabokov, Hesse, Hardy, Henry James, Graham Greene e realizzai che nella fiction c'erano questioni molto più interessanti di: "Quanto ti puoi fidare di un robot col cervello positronico?". È una spada a doppio taglio, però: adesso apprezzo molto di più la buona letteratura, ma ci sono alcune storie intriganti che proprio non riesco a leggere. Se la prosa non è bella o se il ritmo del linguaggio è troppo fiacco, non riesco a leggere. Come diceva Virginia Woolf: "Che cos'ha in mano lo scrittore, una penna o un piccone?". Probabilmente, a causa di questo mi perdo un sacco di belle storie.

Quando, e perché, decidesti di diventare scrittore? Era un sogno che avevi da sempre, oppure avevi altri interessi che avresti potuto perseguire a livello professionale?

Al college studiai fisica. Ero sempre in bilico tra scienza e letteratura. A scuola andavo bene in inglese, specialmente quando scrivevo saggi e storie brevi, ed ero anche bravo a discutere. Tuttavia sono (o ero) molto competitivo e ho sempre un obiettivo da raggiungere. Mi piaceva risolvere i problemi, usare la matematica per lottare con idee astratte finché non arrivavo a una risposta che si potesse applicare nel mondo reale.

Ciò che mi allontanò dalla scienza fu il fatto di trovarmi a Oxford, dove mi piacque talmente tanto l’ambiente sociale che abbandonai quell’incessante stakanovismo che mi aveva sempre caratterizzato negli anni della scuola. Non dico che fossi sempre a qualche festa, però non mi davo da fare quanto sarebbe stato necessario per avere il massimo dei voti. Perciò ottenni un buon titolo, ma non abbastanza da poter fare ricerca nel campo che mi interessava (la fisica subatomica, e così dedicai maggiori sforzi al mio lavoro letterario.

I giochi, specialmente quelli di ruolo, hanno chiaramente avuto una grande influenza sulla tua vita. Come hai scoperto i giochi di ruolo e a quali giocavi all’epoca?

Ero nella fase di passaggio tra scuola e università, perciò doveva essere il tardo 1975. Con alcuni amici andai a Londra in un negozietto chiamato Games Centre, in Hanway Street. Non fu facile da trovare, e all’interno c’era a malapena spazio per muoversi: sembrava disegnato da Steve Ditko. Trovammo una copia di Empire of the Petal Throne e facemmo una colletta per comprarlo. Sul treno, il mio amico Nick Henfrey diede un'occhiata alla confezione e mi ricordo che disse: "Non credo proprio che sia un gioco di simulazione. Penso che si debbano interpretare personaggi singoli". Quello per noi era un concetto rivoluzionario. Avevamo visto sulla scatola la mappa a griglia esagonale e avevamo pensato che si trattasse di un gioco di simulazione fantasy. Comunque, giocai una sessione di EPT e capii che era tutta la vita che aspettavo i giochi di ruolo. Ed è sempre quello che Jamie, Oliver, Min e io giochiamo ancora oggi.



Come molti altri giocatori di giochi di ruolo anche tu sviluppasti il tuo mondo di gioco personale, Legend. Fu una creazione tutta tua oppure ci furono altre persone coinvolte nel suo sviluppo?

Fummo io e Oliver insieme, anche se devo riconoscere che siamo in debito con i nostri giocatori. In un gioco di ruolo ciascuno contribuisce all’atmosfera, ed è proprio l’atmosfera a rendere speciale Legend.

Il tuo gioco di ruolo Dragon Warriors ebbe un notevole successo negli anni '80, e molti lo ricordano con affetto ancora oggi, al punto che la Mongoose Publishing lo ha ripubblicato di recente. Che cos'è secondo te che distingue Dragon Warriors dagli altri prodotti simili?

Come ho detto, è l’atmosfera. Oliver e io volevamo creare un mondo fantasy davvero magico. Un aspetto per me interessantissimo del Medio Evo è quella sensazione che si trattasse davvero di un altro mondo. Quando vedo dei documentari sull’India mi accorgo che si concentrano sulla sensazione di quell’altro mondo che pervade il nostro. Le fonti di ispirazione medievali spesso trasmettono sensazioni simili. Quindi in pratica facemmo dell’Europa medievale un mondo fantasy, ed è questo che, letteralmente, è Legend: il sogno della Vecchia Europa.

Il formato in cui Dragon Warriors fu pubblicato in origine (sei volumetti formato tascabile invece del classico manuale di grande formato) era molto particolare. Come mai si decise di pubblicarlo in un formato così insolito?

All’epoca i giochi di ruolo costavano molto, e li si poteva trovare solo nei negozi specializzati in giochi. Optando per un formato tascabile potemmo ottenere una vasta distribuzione nelle librerie e contenere i costi. All’epoca potevi comprare l’intera serie di Dragon Warriors per 10,50 sterline, mentre un singolo manuale di Advanced Dungeons & Dragons costava tra le 15 e le 25 sterline.

Che cosa ti indusse a cominciare a scrivere avventure in solitaria, e quale fu la prima che pubblicasti?

Fu Castle of Lost Souls su White Dwarf e la scrissi solo perché ero lì a perdere tempo nell'ufficio di Games Workshop e Ian Livingstone mi chiese se potevo scrivere per loro un'avventura da giocare da soli. Poi a me e Oliver fu chiesto di scrivere un libro di Fighting Fantasy e praticamente in quella stessa settimana venimmo contattati dalla Granada Books. All'epoca eravamo tutti sulla stessa barca: tutti gli autori di giochi di mia conoscenza firmavano contratti per scrivere delle serie di librogame.

Golden Dragon fu la tua prima vera serie di librogame. Perché fu intitolata "Golden Dragon"?

La divisione di Granada (poi divenuta Grafton) che pubblicava quei libri si chiamava Dragon Books. Guarda caso ero particolarmente affezionato a loro, perché la Dragon aveva pubblicato il ciclo di Barsoom di Edgar Rice Burroughs (Sotto le lune di Marte, ecc) che avevo letto da ragazzino. Menzionai la cosa ad Angela Sheeha, che dirigeva quella divisione e lei disse: "Mettiamo Dragon nel titolo della serie" (non è questo il motivo per cui Dragon Warriors porta il suo nome: quella penso che fosse un'idea di Oliver).

Golden Dragon ha diverse somiglianze con la serie Fighting Fantasy, eccetto un minor numero di paragrafi e un sistema di combattimento semplificato, non basato sui punteggi del giocatore. Era tua intenzione migliorare il sistema di FF? La serie di Jackson e Livingstone ha avuto qualche influenza sul tuo lavoro?

Mi hanno influenzato nel senso che se non fosse stato per loro non avrei mai scritto librogame! Ma no, non credo che i libri di FF abbiano influenzato il mio lavoro più di tanto, per quanto io ammiri la semplicità di linguaggio di Ian. Uno dei miei difetti è che non uso mai una singola parola breve se posso mettere una dozzina di parole ricercate...

Quei libri erano più brevi perché il supervisore, Angela Sheehan, decise così di punto in bianco che i libri di FF erano un po’ troppo lunghi. Non ricordo però se questo influì sul prezzo dei Golden Dragon. Dopo sei volumi proposi di fare una nuova serie di librogame collegati tra loro e ambientati in un nuovo mondo fantasy: meno Tolkien/Dungeons & Dragons, più orientato verso il genere di fantascienza di Burroughs, Howard e Vance. La serie si sarebbe dovuta chiamare Black Dragon, ma al nuovo supervisore Adrian Sington non interessavano i librogame e mi ricordo che disse: “Oh, non penso che abbiamo bisogno di altri prodotti del genere”. Probabilmente dal suo punto di vista fu un errore, dato che i ricavi di altri sei librogame gli avrebbero pagato lo stipendio per alcuni anni a venire!

Golden Dragon si basa ancora molto sul cosiddetto ‘true path’ da seguire per terminare l’avventura, in particolare L’Occhio del Dragone, in cui perfino gli incantesimi vanno usati come oggetti, al posto e al momento giusto. Che cosa ne pensi di questo particolare modo di strutturare un librogame? Pensi che fosse una necessità ai primordi del genere oppure è solo un modo più facile di pianificare l'avventura?

Molti dicono che un librogame deve poter variare ogni volta che ci si gioca, ma perché? Quello che conta davvero è che piaccia. Meglio avere un unico percorso avvincente che una serie di trame mediocri. Anche andando a guardare libri molto più recenti come Cuore di Ghiaccio, hai due vie principali per arrivare a Du-En, ma quando raggiungi la città c'è solo un percorso. Puoi giocarlo in tutti i modi, sperimentando alleanze diverse (grazie al cielo ci sono le parole in codice), pertanto le tue scelte fanno la differenza; tuttavia, il diagramma di flusso dei paragrafi segue sempre e comunque un solo filone. Ovviamente questo non potemmo farlo in Fabled Lands, in cui la caratteristica dei libri era l'assenza di un filo narrativo. Doveva essere come un gioco di ruolo, in cui puoi fare tutto quello che vuoi.



Golden Dragon dimostra anche chiaramente le tue ambizioni letterarie. Il rinvio della spiegazione della trama in La casa di tenebra, e lo spettacolare prologo di Il tempio di fiamma (quest'ultimo talmente bello che l'hai poi riutilizzato, con qualche modifica, in L’abisso dei morti viventi) sono esempi di capacità narrative a cui ben pochi autori di librogame hanno aspirato. Ti era chiaro, allora, che un librogameè diverso da un set di istruzioni fornite da un Dungeon Master? Pensi che i librogame possano essere non solo buoni giochi, ma anche buoni libri?

Uso spesso quella storia del personaggio che si risveglia da un sogno: l’ho messa anche in Il collare di teschi, seppure in uno stile tipo "la scorsa notte ho sognato Manderley", in cui sai fin dall'inizio che si tratta di un sogno. Punto allo stesso tipo di narrativa durante le sessioni di gioco di ruolo, anche se, in realtà, non amo il termine "Dungeon Master" o "Game Master": preferisco definirlo un arbitro. Sono i giocatori, tutti insieme, che costruiscono la storia, e tu li guidi e fai diventare realtà quell'esperienza. Non devi semplicemente condurli da uno spezzone all'altro della storia.

Comunque, per rispondere alla domanda, sì, credo che i librogame possano essere letteratura. I migliori rappresentanti del genere valgono molto di più di un thriller di James Patterson, per esempio. Non voglio necessariamente dire più piacevoli: mi è capitato di restare bloccato in aeroporto con un libro di James Patterson, e sono riuscito a far trascorrere un paio d’ore in modo abbastanza indolore. Ma i librogame sono in grado di stimolare il pensiero, un librogame può esplorare idee interessanti in modo approfondito.

Blood Swordè una delle più ambiziose e peculiari serie di librogame mai scritte. Come ti è venuta l'idea, e quale contributo vi ha apportato Oliver Johnson?

Peculiare? Ma che bella descrizione: mi piacerebbe averla sulla mia lapide! Oliver e io ci infiammiamo l’immaginazione l’uno con l’altro. Quindi, anche se non mi ricordo le circostanze esatte, sono pronto a scommettere che ci sedemmo con una bottiglia di vino e ci mettemmo a declamare idee e frammenti di trama. Se ci aveste visti in quei momenti, vi sarebbe sembrato di assistere a un duello. Penso che sia io che lui abbiamo in noi un po’ della follia dei bardi celtici. Anche per questo usai la poesia di W.B. Yeats nei romanzi delle Cronache dei Maghi, basati su Blood Sword. La poesia di Yeats di certo ci fu d’ispirazione, e attingemmo anche da una campagna di gioco che Oliver aveva condotto a Oxford che a sua volta si ispirava al romanzo Riddley Walzer di Russel Hoban. Non si butta via niente.

Pur essendo ambientato nel mondo di Legend, Blood Sword utilizza regole molto diverse da Dragon Warriors. Come mai decideste di creare un sistema di gioco completamente nuovo?

Era pubblicato da un altro editore. Perciò, anche se detenevamo i diritti di Legend, pensammo che riutilizzare le regole di Dragon Warriors nei libri di un editore concorrente non sarebbe stato corretto.

La possibilità di giocare la stessa avventura usando da uno a quattro personaggi diversi è senz’altro l’idea più intrigante di Blood Sword. Quanto è stato difficile bilanciare ciascuna avventura per ogni personaggio? Pensi che la serie si possa completare con ogni singolo personaggio, oppure tu e Johnson la progettaste in modo da incoraggiare il gioco di gruppo?

Mi auguro che ogni tipo di personaggio le possa completare da solo, ma è impossibile ottenere un equilibrio perfetto. Qualche tempo fa stavo giocando un gioco di ruolo per computer, Titan Quest, e ho trovato piuttosto difficile andare avanti con un guerriero solitario. Volevo provarci, in modo da dedicare tutta l'esperienza al miglioramento di un singolo personaggio. Poi un mio amico (Jamie Thomson, a dire il vero) ci ha provato con una squadra: stregone, spadaccino e arciere. E mi ha detto che così era molto più facile.

Ogni volume di Blood Sword ha un ‘percorso ideale’, che facilita molto le cose per qualsiasi combinazione di personaggi. Volevate che la serie venisse completata trovando questo percorso in ciascun libro, oppure decideste consapevolmente di introdurre un certo grado di flessibilità?

In barba a quello che ho detto sul fatto che in un buon librogame non è essenziale la rigiocabilità, i libri di Blood Sword probabilmente si possono giocare più volte e vivendo ogni volta una diversa esperienza. Non mi piacerebbe se qualcuno ci giocasse due o tre volte e vivesse ogni volta il 90% della stessa storia!

I labirinti di Krarthè un modo molto particolare di introdurre la serie, essendo solo marginalmente legato alla trama principale della saga. Lo progettasti in questo modo per rimanere fedele a quanto scrivesti in Dragon Warriors -"Un'avventura nel sottosuolo è la migliore per iniziare, perché il suo formato strutturato la rende più facile da gestire per il game master?". Sei stato ispirato in alcun modo dal famoso Deathtrap Dungeon di Ian Livingstone?

Nei giochi di ruolo dei tardi anni ’70 c’erano un bel po’ di questi scenari da ‘ultimo sopravvissuto’, un trend avviato dallo Steve Jackson americano con  Death Test I e II (supplementi per il gioco The Fantasy Trip di cui si parla nell’articolo dedicato a GURPS N.d.R.). Immagino che sia da lì che Ian prese la sua idea per Deathtrap Dungeon e anche noi dobbiamo averla avuta in mente. Essenzialmente, però, volevamo un'avventura a sé stante che introducesse la serie e le meccaniche di gioco (quelle insopportabili mappe strategiche) prima di entrare nel vivo dell'avventura. Sono certo che non abbiamo mai introdotto nulla soltanto perché convinti che avrebbe avuto successo! Io ho sempre scritto soltanto per compiacere me stesso, e i lettori che immagino per i miei libri hanno i miei stessi gusti.

L’Artiglio del Demoneè probabilmente il libro più significativo della serie Blood Sword. Non solo offre una strabiliante esperienza di gioco, ma è anche ricco di filosofie e tradizioni arabe (il dialogo sul ‘dono delle possibilità’, in particolare, lascia il segno). Ancor più sorprendente è il fatto che il libro proponga sfide che si possono vincere solo barando, eppure non vieni mai punito per aver barato, come avviene invece in altri librogame. Che cosa intendevi ottenere con un libro così complesso e sperimentale? Avevi l'esplicita intenzione di renderlo qualcosa di più del solito librogame?

Assolutamente sì. Avevo appena letto L’incubo arabo di Robert Irwin, e una specie di fusione tra il libro di Irwin e le opere di Calvino mi indusse a desiderare di scrivere un librogame che ti portasse dritto al cuore della narrazione invece di essere solo un esercizio di abilità di gioco che era poi ciò che avevo fatto fino a quel momento. Penso che con Viaggio all’inferno io stessi ancora cavalcando la cresta di quell'onda, ma il parto travagliato di Le mura di Spyte (per qualche ragione ci fu un po' di pausa tra i volumi 4 e 5 e in origine Oliver avrebbe dovuto scriverlo da solo) alla fine diluì un po' le ambizioni.

L’Artiglio del Demone introduce anche l'uso delle parole in codice nei librogame. Questo è un metodo anti-baro molto efficace e in più funziona come una stringa di codice in un gioco per computer, differenziando l'esito degli eventi in base a ciò che hai fatto in precedenza. All'epoca eri consapevole della piena efficacia delle parole in codice?

Non era tanto per impedire che qualcuno barasse. Come ho detto altrove, se qualcuno vuole barare mentre gioca da solo, chi ci rimette? Era un sistema derivato dai flag usati nelle avventure testuali per computer dell’epoca. Era molto utile per ricordare interi blocchi di azioni precedenti. Arrivai al punto di sviluppare un correttore di bozze subliminale che lavorava in una parte nascosta della mia mente. Progettavo venti - trenta paragrafi, poi andavo in palestra e nel bel mezzo di un esercizio mi ritrovavo improvvisamente a pensare “Oh, c’è un errore nel collegamento tra il 27 e il 30” o “Mi serve un’altra parola in codice al 45” o roba così. Scommetto che anche Platone elaborava i suoi pensieri migliori in questo modo.

Viaggio all’infernoè un sorprendente coacervo di rappresentazioni dell'aldilà provenienti da varie culture. È evidente che molta ispirazione arriva dall'Inferno di Dante che tu hai anche citato in Cuore di ghiaccio. Quanto bene conosci l'opera di Dante, e che opinione ne hai?

Ho La Divina Commedia a portata di mano sulla mia scrivania. Considero lui (Dante Alighieri N.d.R.) e Milton due grandi poeti che esplorarono quel viaggio immaginario che oggi costituisce il territorio dei migliori scrittori di fantascienza. Con questo intendo gli autori di fantascienza interessati ad arrivare al cuore di grandi temi morali, spirituali e filosofici.

Le mura di Spyte offre un'esperienza di gioco piuttosto diversa dal resto della serie, con una maggiore enfasi sui combattimenti e, nel complesso, una difficoltà molto più alta. È una conseguenza della collaborazione di Jamie Thomson? Come mai Thomson fu chiamato ad unirsi al gruppo per l'ultimo volume di Blood Sword, e quale fu il suo ruolo nella sua pianificazione e stesura?

Quel libro avrebbe dovuto scriverlo Oliver. Mise giù tutto quanto su un grosso foglio di carta, ma poi ebbe altri impegni di lavoro e io ero occupato con il libro (qualunque fosse) che avrei pubblicato in seguito, perciò ci venne in aiuto Jamie. Penso che la prima parte all’esterno di Spyte fu scritta in gran parte da Oliver. Poi Jamie fece la parte di mezzo e io il finale, quel trucchetto della Luna Blu che sfrutta la tua immaginazione per restare nel mondo, quelle cose lì.

Probabilmente per la prima volta nella storia del librogame, Blood Sword accenna al concetto di un allineamento morale dei personaggi. Puoi decidere di essere buono o malvagio; puoi aiutare le persone a tue spese, oppure abbandonarle al loro destino o perfino derubarle, ricche o povere che siano. In ogni caso, le tue azioni non vengono giudicate in termini di gioco, ossia: essere buono non è sempre remunerativo, ed essere cattivo non è garanzia di punizione. Ciò concede al lettore un’eccezionale libertà di comportamento, e contribuisce immensamente all’identificazione con i personaggi. Anche questo è particolarmente evidente nell’Artiglio del Demone. Quando, e perché, decidesti di integrare un elemento da gioco di ruolo così importante anche nei librogame?


Mi ricordo che una volta parlai con Joe Dever e lui mi disse di aver incluso un “elemento morale” nel suo più recente libro di Lupo Solitario. Se non liberavi alcuni bambini tenuti in schiavitù, due o tre paragrafi dopo venivi attaccato da un demone invincibile. E io dissi: “Ma questa non è moralità, è semplicemente economia! La moralità è un fatto personale. Se vieni influenzato dalla consapevolezza di una punizione, allora non puoi dire che è una scelta morale”. Perciò decisi di integrare quell’idea in Blood Sword, il che era particolarmente adatto in quanto la serie riguardava questi tizi, i Maghi che avevano permesso alla loro brama di potere e di vita eterna di sovrastare qualsiasi altra cosa. Egoismo e disempatia: ecco ciò che per me costituisce il ‘male’. E naturalmente la serie culmina con la fine del mondo, ma per una volta non sei in grado di evitarlo e anzi nemmeno intendi provarci. La fine del mondo è poi il fine ultimo della creazione.

Coincidenza: abbiamo giocato proprio quello stesso evento di recente, in una campagna di Legend ideata da un amico. I nostri personaggi erano tutti pellegrini in cerca di redenzione e lui ci ha condotti ad una chiesetta sperduta nella foresta. Era la vigilia di capodanno dell’anno 1000 e il mondo è finito lì. Senza nemmeno spettacoli o fuochi d’artificio. Piuttosto insolito in un gioco di ruolo. È stato stranamente toccante.

Blood Swordè una serie molto amata e ricercata. Sfortunatamente, oggigiorno ce ne sono molte poche copie, specialmente dell’edizione inglese. Puoi fare una stima delle vendite e del successo della serie all’epoca della pubblicazione? C’è qualche possibilità di rivederla pubblicata?

Non ricordo le cifre di vendita, ma eravamo in pieno boom dei librogame e ce ne furono diverse traduzioni, quindi deve aver avuto un buon successo. Mi piacerebbe molto rivederla pubblicata, magari anche per sbarazzarsi di quelle piccole mappe strategiche, un elemento che dovemmo inserire perché gli editori volevano qualcosa che differenziasse i libri da Fighting Fantasy. Io pensavo che avere storie decenti con personaggi ben delineati fosse un elemento sufficientemente innovativo!

Tirare i dadi è molto divertente nei giochi di ruolo ‘carta e penna’, dal momento che è solo uno dei modi con cui si interagisce col mondo di gioco. Sfortunatamente può diventare piuttosto noioso nei limiti di un’avventura solitaria, specialmente quando ne si abusa come avveniva negli ultimi titoli di Fighting Fantasy. Ed ecco arrivare la serie Realtà Virtuale, con una sola pagina di regolamento e nessuno spazio per la fortuna! La formula della serie può sembrare un passo indietro verso un formato di librogame più semplice come quello di Scegli la tua avventura, ma allo stesso tempo è un grande miglioramento in termini di libertà e semplicità di gioco. Come fu concepita l'idea alla base della serie, e che cosa intendevi ottenere in termini di giocabilità e narrativa?

Già nei libri di Blood Sword incoraggiavo i giocatori a ignorare i dadi, se così gli andava. Ma l’approccio completamente senza dadi venne fuori perché io e Min pensammo a persone che giocassero i libri in metropolitana o sull’autobus, dove non è comodo tirare dadi. Ed entrambi eravamo molto interessati alla narrazione più che alle meccaniche di gioco, probabilmente per via del nostro background da giocatori di ruolo. Perciò decidemmo di provare con qualcosa che si sarebbe potuto leggere come un romanzo, ma con la possibilità di fare scelte.

Realtà Virtuale giunse piuttosto tardi nel ciclo vitale del fenomeno librogame. Fu difficile ottenerne la pubblicazione? Quanto successo ottenne in termini di vendite e di apprezzamento di pubblico?

Era un pochino tardi. Però dev’essere andata bene, perché gli editori ci commissionarono altri due volumi dopo i primi quattro e ne esiste ancora uno scritto da Min, che non fu mai pubblicato. Probabilmente, se avessimo fatto quella serie qualche anno prima, sarebbe stato il più grande successo a cui entrambi avessimo mai lavorato. Non è stata troppo difficile da vendere, però. Min è un venditore molto persuasivo, e c’erano due o tre editori interessati alla serie.

Il coinvolgimento di Mark Smith in Realtà Virtualeè piuttosto curioso, visto che la serie costituisce l’unica collaborazione tra te e Smith in ambito librogame. Quale fu il suo contributo alla creazione della serie e che cosa pensi del modo in cui lui ne sfruttò il formato? Te la senti di esprimere un’opinione sui suoi due libri?

È interessante come la gente voglia sempre appiccicarti addosso un’etichetta: “Oh, X è quello creativo e Y è quello che inventa le regole”, questo genere di cose. Quando io e Min andavamo a discutere di RV con gli editori, lui ci andava in completo e io nella mia solita ‘uniforme da scrittore’, con jeans e camicia a collo aperto. E allora gli editori pensavano “Min è il businessman, Dave lo scrittore”, ma in realtà eravamo entrambi interamente coinvolti nella progettazione, la vendita e la scrittura della serie.

Se proprio devo fare una distinzione, direi che i due libri di Min nella serie sono più simili a romanzi. Le spire dell’odio in particolare tratta un tema molto serio (l'intolleranza razziale), e lo stile e la caratterizzazione dei personaggi sono all'altezza di quanto si trova in molti romanzi fantasy. Min si preoccupa di meno della giocabilità. Quindi non è scontato che si possa completare uno dei suoi libri con qualsiasi combinazione di abilità, mentre io cerco sempre di fare in modo che sia possibile.

Anche i miei libri in quella serie trattano alcuni temi seri, naturalmente. Ma a me piace stimolare la riflessione, mentre gli argomenti toccati da Min (l’ambiente e l’appartenenza razziale) sono di quelli che pretendono risposte inequivocabili. E io pensai che la sua splendida prosa e i suoi personaggi ben delineati (specialmente Lucie e Caiaphas, in Le spire dell’odio) avrebbero reso i suoi libri i migliori come romanzi puri e semplici. La famiglia di Min è sfuggita ai nazisti e penso che si capisca che Le spire dell’odio viene dal profondo del cuore.

L’abisso dei morti viventiè un librogame straordinario. Anche se hai usato spesso il tema del viaggio per mare nei tuoi librogame, mai prima di allora avevi posto tanta attenzione sul tema dei pirati. Dal momento che il titolo del libro fu anticipato in The Keep of the Lich-Lord (nel nome di una locanda!), per quanto tempo ti sei baloccato con l'idea di una storia simile prima di metterti finalmente a scriverla?

Come la maggior parte delle mie idee, è probabile che se ne sia rimasta a rosicchiare nel mio subconscio per anni. Alcune di queste idee fanno il loro debutto nelle mie sessioni di gioco di ruolo, poi vengono impacchettate e messe via in modo che ci lavorino ‘i ragazzi giù in cantina’, come dice Stephen King. Poi un bel giorno l’idea tutta intera riaffiora alla parte cosciente della mia mente, io ringrazio il mio lato nascosto per aver fatto tutto il lavoro più duro, e mi metto a scrivere il libro!

Cuore di ghiaccioè verosimilmente il librogame più maturo mai scritto. La trama è superba, il design e lo sviluppo dei personaggi sono tra i migliori mai visti, l'atmosfera è perfetta e i finali multipli significano che se riesci a sopravvivere fino alla fine ‘vinci’ sempre – ammesso che si possa definire vittoria anche solo uno di quei finali, così ambigui e mai del tutto soddisfacenti! Cuore di ghiaccioè una storia ricca di significati più profondi ed è talmente ben riuscito che potrebbe perfino aver ispirato un film, intitolato Post Impact. Che cosa ti ha ispirato a scrivere una storia così matura e originale in formato librogame? C'è qualche messaggio particolare che volevi trasmettere ai tuoi lettori?

Non cerco di dare ai miei lettori dei messaggi; semplicemente ci sono degli argomenti che mi interessano, e mi piace indurre i lettori a rifletterci su. Domande, non risposte. Anche Cuore di ghiaccio iniziò come sessione di gioco di ruolo: posso datarne la nascita esattamente al Natale del 1976. Ero tornato a casa dopo il mio primo trimestre al college, e mi serviva uno scenario per un gran numero di giocatori. Credeteci o no, partii con l'idea di fare una versione seria di Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo, un po' come A prova d’erroreè la versione seria del Dottor Stranamore. L'idea di Du-En venne dallo spettacolo degli edifici della Christ Church, assolutamente deserti in una gelida notte dopo la fine del trimestre, con gli edifici pallidamente illuminati davanti a un immenso cielo stellato.

Dopo la prima sessione di gioco stavo tornando a casa con uno dei giocatori e lui disse che si immaginava Du-En come un film e che quello che gli piaceva era che la partita si era concentrata sulla tensione tra i personaggi accampati all’aperto in questa città in rovina, coperta di neve. Quindi, dopo soli 18 anni, l’idea divenne un libro e, forse è vero, dieci anni dopo ancora divenne un film. Con protagonista nientemeno che Superman! Attenzione comunque, io Post Impact non l'ho visto, quindi non so quanto sia simile al libro.

Anche più che L’Artiglio del Demone, I misteri di Baghdadè un grande, appassionato omaggio a Le mille e una notte, con uno splendido finale che riassume perfettamente l'essenza del gioco di ruolo. Che debito hai nei confronti dei miti e dei racconti arabi?

I miti arabi sono una delle mie ‘sorgenti di Ippocrene’ a cui ritorno continuamente per trarne ispirazione. Ho la traduzione completa di Mardrus e Mathers, quella di Burton, le edizioni Dulac illustrate. Una serie di film, da Michael Powell a Steve Barron. Tutti i giochi di Prince of Persia. E, naturalmente, il gioco da tavolo di Eric Goldberg! E questo è solo Le mille e una notte: ho anche pile di racconti popolari arabi, il Rubaiyat, ogni genere di materiale arabo. Quello che significa per me si trova probabilmente espresso al meglio nella storia di Sandman "Ramadan": è più che un periodo storico, è un tramite verso un luogo dell'im-maginazione. Certo, non sono sicuramente il primo scrittore inglese che si è innamorato della cultura araba...

Praticamente all’opposto di Realtà Virtuale, Fabled Landsè probabilmente la più sofisticata serie di librogame mai concepita. Come mai tu e Thomson decideste di sviluppare un progetto così titanico e perché giunse così tardi negli anni '90, quando ormai l'era dei librogame era praticamente finita? Per quale ragione la serie fu interrotta a metà?

Fu una questione di prezzo. Jamie e io sapevamo bene che il mercato dei librogame si stava riducendo, ma eravamo convinti che uno zoccolo duro di intenditori avrebbe permesso alla serie di attecchire. Volevamo offrire un’esperienza senza limiti definiti (ciò che oggi forse verrebbe chiamato un gioco di ruolo ‘sandbox’) e credevamo che chi volesse qualcosa di simile avrebbe pagato 7.99 sterline. L’editore insistette per aprire la serie al prezzo di 4.99. Se avessero aumentato il prezzo dopo il secondo volume, sarebbe stato un successo e avremmo potuto proseguire fino al completamento della serie. Ma per qualche ragione loro rimasero fissi sul prezzo più basso. Considerata la quantità di materiale in ciascun libro, non credo che un prezzo più alto ci avrebbe fatto perdere molti lettori. Vendemmo circa diecimila copie di ogni volume in Inghilterra, credo, forse di più. A 7.99 sterline avrebbe funzionato.

L’incompiutezza di Fabled Landsè una delle cose che più dispiacciono ai fan dei librogame, tanto che alcuni lettori da qualche tempo progettano di scrivere loro stessi i volumi mancanti. Possiamo sperare di vedere un giorno o l’altro la serie compiuta? Avevate in mente un qualche finale, o un obiettivo particolare per i giocatori, oppure volevate solo che i lettori potessero completare tutte le missioni e continuare a giocare finché non rimanesse più nulla da scoprire?

Penso che uno degli altri libri sia stato scritto da qualcuno del gruppo Yahoo dedicato a FL. Piuttosto che ritornarci in forma di librogame, preferirei vedere un gioco di ruolo di Fabled Lands, così che i lettori possano continuare le loro avventure in quel mondo per sempre. È per questo che non volevo che ci fosse una singola missione in stile ‘salva l’universo’. Doveva essere una serie di libri con cui potevi giocare e, giocando, creare la storia della vita del tuo personaggio. Come in un gioco di ruolo.

Jamie ha scritto parte di un romanzo di Fabled Lands. È bello: divertente, veloce, dedicato a un target simile a quello di Spiderwick, quindi più giovane di quello dei librogame, ma potrebbe essere un modo per recuperare quel mondo.

È molto interessante vedere il tuo nome apparire in qualità di autore di uno, e un solo, volume della lunga serie Fighting Fantasy, insieme a Jamie Thomson. Qual è la storia dietro questo libro? Che cosa pensi di Fighting Fantasy in generale, e qual è la tua opinione del tuo personale contributo alla serie?

Se qualcuno vuole ‘tutte le opere di Dave Morris’, allora gli direi di non preoccuparsi se non ha Keep of the Lich Lord! Era okay, ma non l'ho mai sentito molto personale. Non ha affatto quella profondità di retroscena che normalmente creo per i miei libri e spero che la cosa filtri attraverso il prodotto finito.



In origine Oliver e io eravamo in lista tra i primi autori della serie Fighting Fantasy. Se date un’occhiata alle prime copie di FF e Sortilegio vedrete che Il Signore dell’Ombra doveva essere l'ottavo o nono volume di FF, qualcosa di simile. Poi io e Oliver incontrammo Angela Sheehan, la nostra supervisore per la serie Golden Dragon. Dopo l'incontro andammo tutti in un pub e io lasciai la faccenda a loro, e la mattina dopo Oliver mi telefonò, in preda ai postumi di una sbornia, per dirmi che aveva convinto Angela a commissionarci altri quattro libri. Giusto per rispettare le consegne, allora, Oliver sottrasse Il Signore dell’Ombra alla Puffin, ma in origine doveva essere scritto da entrambi, e sarebbe stato un libro di Fighting Fantasy.

Non sono un grande fan di Fighting Fantasy. Non incontra per niente i miei gusti in fatto di fantasy, quel genere tipo ‘gilda dei ladri’ con elfi e nani che sorreggono il bancone della taverna. Anzi, in realtà mi sta proprio sullo stomaco. Detto questo, apprezzo moltissimo quello che Ian e Steve hanno fatto. Hanno creato un’intera industria che ha permesso a molti di noi di creare lavori di cui andiamo molto fieri. Quindi personalmente non mi importa granché dei libri di FF, ma sono contento che li abbiano fatti.

Alcuni dei tuoi librogame sono prodotti su licenza basati su serie TV come Transformers e Knightmare o su giochi da tavolo come HeroQuest. Alcuni includono anche racconti che accompagnano l'avventura interattiva. Questi libri ti furono commissionati oppure fosti tu a proporre di scriverli? In retrospettiva, pensi che fossero libri interessanti, sia da scrivere che da leggere?

I racconti erano interessanti. Qualche volta anche frustranti, specialmente quelli di HeroQuest, perché ovviamente si trattava di materiale altrui e il dirigente della Hasbro aveva un bel po' di idee su come avrebbe dovuto procedere la storia. Il meglio che posso dire è che probabilmente avrebbe ricavato altrettanto beneficio dalle mie idee su come commercializzare i giocattoli. Ma nel complesso sono abbastanza contento di quei libri. Il secondo racconto di Knightmare aveva un bel po' dei miei tratti distintivi: la commistione tra sogno e realtà, il finale agrodolce. E in ciascuno di essi sono riuscito a far apparire la magia come qualcosa di più inquietante e portentoso della solita palla di fuoco-bazooka di Dungeons & Dragons.

Le parti librogame dei Knightmare erano per lo più troppo brevi per farci qualcosa di interessante, anche se in realtà, a pensarci, mi piacque abbastanza scrivere le sezioni librogame di HeroQuest, specialmente nei volumi 1 e 2. C'erano piccoli tocchi che penso fossero molto belli (tra parentesi, questo di solito è un segno che l’autore sta dando il peggio di sé...).

La maggior parte degli autori di librogame trovarono una buona formula e ci si attennero sempre, modificando a malapena le regole da una serie all’altra. Tu, invece, hai sempre proposto qualcosa di totalmente nuovo e diverso ogni volta che hai creato una nuova serie di librogame. Era per te una sfida personale creare sempre qualcosa di nuovo? Differenziare le tue opere così tanto l’una dall’altra era importante per te personalmente, come modo di sperimentare nuove idee? Oppure volevi soltanto che i tuoi lettori non rischiassero mai di annoiarsi dei tuoi libri?

Sono io che non voglio annoiarmi! Come calcolo puramente commerciale, usare la stessa formula ogni volta ha più probabilità di avere successo. In questo modo i lettori sanno sempre quello che li aspetta. Lo stesso si vede nei libri di Jackson & Livingstone. Steve sperimentava sempre con nuove ambientazioni e nuove meccaniche di gioco. Ian si fissò sul classico mondo fantasy alla Dungeons & Dragons, non ritoccava mai il sistema di gioco, e immagino che abbia venduto il doppio dei libri. A me sembra però di passare buona parte della mia vita nella mia testa, perciò l’idea di fare decine di librogame di Golden Dragon, a prescindere da quanto potessero pagarmeli, non sarebbe stato sufficiente.

Chi sono le persone con cui hai lavorato meglio come autore di librogame? Sei ancora in contatto con qualcuno di loro?

Quella dei librogameè sempre stata una piccola cricca. Tutti si conoscevano e uscivano insieme. Io mi vedo con Oliver, Jamie Thomson e Min Smith di continuo. Ci incontriamo almeno una volta al mese per giocare di ruolo. Jamie è un mio carissimo amico e insieme abbiamo una piccola compagnia chiamata Fabled Lands LLP, che sviluppa materiale cross-media.

Oliver Johnson è uno dei miei più vecchi e cari amici. È uno scrittore di grande talento, e io spero di cuore che il suo ultimo romanzo, The Knight of the Fields, trovi un editore. È proprio quello che dovrebbe essere il fantasy. La maggior parte dei libri di fantasy mi annoia perché rappresentano semplicemente il nostro mondo con qualche piccola modifica. Insomma, se puoi raccontare una storia senza magia allora credo che dovresti, esattamente nel modo in cui le storie di fantascienza non dovrebbero essere dei western ambientati nello spazio o cose del genere. Bob Shaw e Ursula Le Guin hanno entrambi detto abbastanza a riguardo, perciò non dico altro. Comunque, il nuovo romanzo di Oliver descrive un mondo totalmente fantastico. L'effetto risultante è che, come nella migliore letteratura gotica, il lettore compie un viaggio verso un sogno d'infanzia quasi dimenticato. Questo romanzo soddisfa il requisito della grande letteratura: dopo averlo letto non sei più la stessa persona che eri prima.

Anche Paul Mason (che adesso pubblica Cuore di ghiaccio) è un mio buon amico. Però non abbiamo mai lavorato insieme. Non lo vedo quanto vorrei perché abita in Giappone, anche se l'estate scorsa è venuto a stare da noi in Inghilterra. Ha appena completato un eccellente giallo ambientato nella Cina medievale, che se tutto va bene diventerà una serie.

I tuoi librogame sono stati illustrati da artisti di straordinario talento come Leo Hartas, Russ Nicholson e Bob Harvey. Lavorare con loro è stata una buona esperienza? Che opinione hai del loro lavoro?

Adoro i disegni di Russ Nicholson: possiedo alcuni originali e mi sembra che di questi tempi sia ingiustamente trascurato. Russ ha una mente molto creativa, e non è affatto un “semplice” illustratore. Spesso aveva delle idee per i librogame di Fabled Lands, come ad esempio le città ambulanti degli Uttakin e si era dieci anni prima di Mortal Engines

Sono il padrino del figlio più piccolo di Leo, Inigo e io e Leo stiamo lavorando ad una striscia a fumetti intitolata Mirabilis (www.mirabilis–yearofwonders.com) che viene pubblicata sul settimanale The DFC della Random House.

Quale pensi che sia il modo migliore di strutturare un librogame? Quanti possibili percorsi verso la vittoria dovrebbero esserci? Riguardo al ruolo della fortuna, quanta influenza dovrebbe avere sul tuo successo il lancio di un dado? Alcuni librogame hanno una probabilità di vittoria stimata a meno del 10%, a prescindere dalle condizioni di partenza; quante probabilità dovresti avere di completare un’avventura quando hai appreso il percorso che porta alla vittoria? E in tema di combattimenti, quand’è che possono considerarsi troppi?

Idealmente un librogame dovrebbe poter essere completato al primo tentativo. Ogni volta che uccidi un personaggio, come scrittore hai fallito. Preferisco che i giocatori commettano errori che li fanno deviare dalla strada migliore e che intacchino i loro punti ferita, piuttosto che portarli direttamente a un paragrafo di morte. Nei giochi per computer è lo stesso: se vengo ucciso e devo ricominciare, è solo una seccatura.

I combattimenti sono troppi quando l’incontro appare del tutto casuale. Sai com’è, sei nel castello del vampiro e vieni attaccato da tre scheletri. Yawn. Ma se trovassi una pila di casse nella stanza da letto di sua moglie, e scoprissi che dentro ci sono sua moglie e un gruppo di piccoli vampiretti... Questo sì che sarebbe più interessante, qualcosa che varrebbe la pena inserire nel libro.

E davvero non mi piace l’idea che un giocatore fallisca per un lancio di dadi sfortunato. Penso che in quel caso, se barasse, sarebbe giustificato. Di certo non metterei mai una sezione dove uccido i giocatori che hanno barato, come hanno fatto Ian e Steve un paio di volte in FF. Se vuoi falsificare i tiri di dado, perché no? Hai comprato il libro, la scelta spetta a te.

C’è qualcuno dei tuoi librogame che preferisci?

Cuore di ghiaccio, di gran lunga. Era quasi esattamente ciò che volevo che fosse. Mi sarebbe piaciuto che potesse essere un po' più lungo, però. Alla fine esaurii il tempo e lo spazio. Nessun'opera d'arte viene mai finita, ma solo abbandonata.

Penso che anche L’abisso dei morti viventi non sia malaccio. E I misteri di Baghdad, ma vorrei proprio avergli trovato un titolo migliore (l'originale è Twist of Fate, N.dR.). Cercavo uno spunto nella traduzione di Omar Khayyam fatta da Fitzgerald, ma Noose of Light e The Sultan’s Turret erano recentemente usciti come titoli di romanzi, perciò sarebbe sembrato che li copiassi.

L’artiglio del Demone e Viaggio all’inferno mi sembrano dei lavori piuttosto buoni... come la maggior parte dei miei libri, in realtà! E ho anche un debole per Il collare di teschi perché è ambientato in Messico e in Guatemala e l'ho scritto subito dopo essere tornato dalla luna di miele che vi ho trascorso. Abbiamo scalato quasi tutte le piramidi maya che avevano.

Leggesti i librogame di altri autori all’epoca? Se sì, che cosa ne pensavi? Ce n’è qualcuno che ti ha lasciato una buona impressione o che ti ha ispirato a fare qualcosa di simile?

Direi di no. Qualcuno l’ho letto. Mi sono abbastanza piaciuti i libri di Duelmaster (in Italia Fantastica Game, N.d.R.) scritti da Jamie e Min, e i libri scritti da Paul Mason per FF, ma nemmeno quelli mi hanno influenzato granché. Non penso che ciò che mi interessava del medium librogame fosse ciò che facevano gli altri scrittori. Quello che mi ha influenzato maggiormente è stato discutere di persona varie idee con quei ragazzi. Del resto molti di loro partecipavano alle mie sessioni di gioco di ruolo: Jamie, Oliver, Min e Paul.

Recentemente le serie di librogame più vendute stanno vivendo una sorta di rinascimento, con il ritorno in libreria di Fighting Fantasy prima e Lupo Solitario poi. Pensi che ci sia ancora spazio per i librogame nel XXI secolo? Saranno in grado di far innamorare di sé un nuovo pubblico o queste ristampe sono soltanto un’operazione nostalgia per le persone cresciute leggendo quei libri vent’anni fa?

Adesso sono in concorrenza coi videogiochi. Anche se il mio figlioccio e suo fratello giocano ai miei vecchi librogame di tanto in tanto, si esaltano molto di più per God of War e World of Warcraft. Non sono solo i librogame ad aver perso terreno: anche i romanzi non vendono più come una volta.

I tuoi librogame sono solo l’opera di un grande narratore con una fantasia apparentemente infinita, oppure ti piace viaggiare e vivere avventure intorno al mondo anche nella vita reale?

Una volta viaggiavo molto: Estremo Oriente, Nord e Centro America, Egitto, Europa occidentale. Oggi molto meno, perché non ho tempo. Mi piace andare in un posto e immergermici: qualche settimana non mi basta.

In alcuni tuoi librogame ci sono riferimenti ai luoghi e alla cultura italiana. Sei mai stato in Italia? Se sì, il paese ti piace? Ci sono altre opere di autori italiani che conosci e apprezzi, a parte quelle di Dante?

Uno degli autori che mi hanno influenzato maggiormente – e non parlo di uno scrittore, ma di un autore nel senso più vasto del termine – è Sergio Leone. Prima ho accennato di aver avuto l’idea di Cuore di ghiaccio in forma di film. Ebbene, sarebbe stato un film di Leone. Quella combinazione di opera e mito con la caotica vita umana di tutti i giorni, la mosca che zampetta nel sudore di un volto umano. I film di Leone mostrano come le storie che creiamo diano un senso a ciò che altrimenti sarebbe solo un'esistenza breve e senza senso.

E sempre a proposito di narrazioni costruite e di come esse plasmano la nostra vita, due dei miei autori preferiti sono Umberto Eco e Italo Calvino. Penso che in particolare si possa vedere l’influenza di Calvino in Blood Sword. Il castello dei destini incrociati fu uno dei libri che mi avviarono verso la carriera di scrittore con quelle che, a quanto pare, sono le mie specifiche ossessioni. E il libro di fiabe italiane di Calvino suggerisce che lui condividesse il mio interesse nella continuità che unisce gli antichi racconti orali alla narrativa moderna.

Sono anche (e questo è un elemento di sinistra) un fan delle storie di Don Camillo. Le trovai a scuola, quando ero responsabile della biblioteca e scoprii che ne avevamo un’intera raccolta di traduzioni in inglese. Non saprei dire esattamente perché. Suppongo che in parte sia perché il villaggio, come Deadwood nella serie TV, rappresenta il mondo intero. Mi piace quel genere di concetto, ridurre grandi idee astratte a situazioni specifiche. Penso che sia l’essenza della narrazione. Ma mi piacciono anche semplicemente la relazione e gli impliciti retroscena di Don Camillo e Peppone. Una volta che ti affezioni ai personaggi di uno scrittore, lui può portarti dovunque: anche questa è una lezione importante!

Non ho visitato l’Italia di persona, ma mi piacerebbe molto. Ho messo gli occhi su una villa del Palladio vicino a Padova come ritrovo per la mia prossima festa di compleanno; se la mia agenda me lo permetterà, sarebbe grandioso prendersi un po’ di tempo per fare un giro del Paese. Ho in cantiere un progetto da un paio d’anni, qualcosa che ha più o meno a che fare con Da Vinci, e amerei avere l’opportunità di immergermi nella cultura e nel paesaggio.

Hai anche scritto dei libri non “giocabili” negli anni ’80 e ’90? Di che cosa parlavano? A che tipo di lettori erano rivolti?

Ho scritto roba di tutti i tipi. Libri delle Tartarughe Ninja. Stingray, Thunderbirds, eccetera; non mi sono esattamente svenduto, visto che quegli show di Gerry Anderson mi piacevano molto da ragazzo. Quando il mio figlioccio andò a vedere il film Tunderbirds - I cavalieri dello spazio (quello del 1966, replicato) gli dissi: “Io ho visto quel film quando avevo più o meno la tua età”. E lui rimase sbalordito, probabilmente pensò che mi fosse venuto l'Alzheimer. Mi disse: “Dave, guarda che è uscito solo il mese scorso”. Ma era lo stesso film e lui stava traendo divertimento e ispirazione dalle stesse cose da cui li avevo tratti io.

E poi ho scritto storie dell’orrore, romanzi tratti da film. Perfino un romanzo su una storia d’amore tra vampiri. Quest’ultimo è il mio unico libro mai pubblicato, non perché fu rifiutato, ma perché l’editore decise di non continuare la serie. Anzi no, aspetta: non fu l’unico. Ho anche scritto due racconti su licenza della serie animata televisiva C.O.P.S., ma la cosa non andò avanti perché la serie non fu trasmessa nel Regno Unito. Ho scritto talmente tanto che a volte mi dimentico di certe cose...

Ho anche scritto un bel mattone sulla progettazione dei giochi per computer e diversi libri sull’arte e il design dei videogiochi.

Che cos’hai fatto dopo il 1996, quando furono pubblicati i tuoi ultimi librogame? Sei sempre nel business dei giochi, o di giochi scrivi soltanto?

Al momento non sono impegnato in alcun progetto relativo a giochi, ma leggete oltre.

Che ne pensi dei videogiochi? Ci giochi? Hai mai pensato di collaborare con l’industria dei videogiochi?

Ho trascorso poco più di dieci anni nell’industria dei videogiochi: ci sono stato attirato da Ian Livingstone che all’epoca era presidente di Eidos. Ho progettato un gioco intitolato Warrior Kings, che quando uscì fu tra i dieci più venduti nel Regno Unito. Dopo aver lasciato Eidos fondai una compagnia di sviluppo chiamata Black Cactus, feci il consulente per diversi editori e passai un anno agli Elixir Studios lavorando ad un interessante gioco basato su storie e personaggi per conto della Microsoft; la quale, purtroppo, voleva un gioco più simile a I Sims, perciò il nostro progetto fu abbandonato. Quando, come risultato, Elixir fallì, decisi che ne avevo abbastanza dell'industria dei videogiochi. Qualche settimana dopo, David Flicking cominciò a progettare il suo fumetto (www.thedfc.co.uk), perciò accettai al volo l'opportunità di lavorare a qualcosa per quel progetto.

Quali sono i tuoi attuali progetti? Puoi rivelare qualcosa?

Ho già accennato a Mirabilis. Leo e io lo sognavamo già dodici anni fa, ma c’è voluto tutto quel tempo per trovare la forma giusta in cui realizzarlo… e un editore, David Flicking, che lo capisce e ci crede davvero. I disegni sono di Leo, e i colori del talentuoso Nikos Koutsis. Quei due stanno dando vita ad una magia visiva straordinaria. È un’avventura enorme di portata epica (sarà sulle 280 pagine), che durerà un anno intero e attraverserà tutto il mondo.

La storia ha luogo in un anno perduto dimenticato dalla storia, “tra l’epoca vittoriana e quella edoardiana”. Jack Ember, un povero ufficiale dell’esercito, viene mandato a indagare su strani eventi dagli eccentrici capoccioni della Reale Società Mitologica. Nel cielo è apparsa una cometa verde e, man mano che questa diventa più grande, la barriera tra immaginazione e realtà comincia a dissolversi e cose fantastiche si intrecciano con la vita quotidiana. La missione di Jack lo porta in giro per il mondo a trovare avventura, pericoli, amici e nemici. Sul suo cammino incontra Estelle Meadowvane, la giovane e bella astronoma dilettante che ha scoperto la cometa verde e durante questo anno in cui l’impossibile è divenuto possibile, nonostante le differenze di classe e di censo che li separano, forse Jack ed Estelle troveranno l’amore. Dico forse perché sto scrivendo la storia come faceva Dickens, un episodio alla volta. Quindi non so esattamente dove la storia andrà a parare.

In teoria Mirabilis è una storia per ragazzi (o giovani adulti, il termine che di solito indica quelli tra gli 11 e i 14 anni o giù di lì), ma nello stesso senso in cui Harry Potter e Queste Oscure Materie sono per ragazzi: in realtà, finché c'è una parte della tua immaginazione che mantiene un fanciullesco senso del meraviglioso, mi auguro che possa piacere a qualsiasi età. Io sono un insaziabile appassionato di fumetti: Moore, Ditko, Gaiman, Mignola, questi nomi mi fanno battere il cuore. Mia moglie ha ragione, sono proprio un fanatico.

Che progetti hai per il futuro?

Mi piacerebbe fare altri fumetti. Come lavoro per me è un medium nuovo, ma è anche un medium che ho sempre amato e quello che sono in grado di farci è molto nuovo – per me, almeno. Quando sei uno scrittore vuoi sempre andare avanti, estendere i tuoi limiti, diventare migliore. O, se non migliore, per lo meno diverso.

Grazie mille per l’intervista.

Grazie a voi. Noi scriviamo per raggiungere le menti degli altri. Sono grato e onorato di sapere che il mio lavoro sia stato tanto apprezzato.


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